Italia-Inghilterra, il giornalista inglese: «Tifo azzurri per amore, ma con la maglia dei Tre Leoni addosso»
Luke Leitch * editor-at large for Vogue Italia, contributing editor for Vogue America, and fashion editor of The Economist’s 1843 magazine
di Luke Leitch
Ho un problema. Un problema di cuore. Amo l’Inghilterra perché sono inglese, ovviamente. Ma siccome amo un’italiana, e sto per sposarla, e lavoro parecchio in Italia, e in Italia ho intenzione di trascorrere gli anni a venire, sono profondamente e pazzamente innamorato anche del vostro Paese.
Ad aggravare il problema — il problema di un uomo privilegiato — Giorgio Armani mi ha appena regalato un biglietto per la finale. Il che mi causa un altro problema: benché abbia già scelto la maglia da indossare a Wembley — Inghilterra, Bobby Moore, 1966 — non so ancora a quale squadra, Italia o Inghilterra, augurare la vittoria. È dall’inizio degli Europei che ci penso. Dapprima in modo astratto a Milano, Ischia e Firenze mentre lavoravo. Poi, ininterrottamente, da quella meravigliosa notte di sabato scorso a Roma a guardare la partita con l’Ucraina. E con sempre maggior insistenza durante il volo di ritorno e per tutta la quarantena. Mi rendo conto che la questione non è tanto a quale delle due squadre augurare la vittoria, quanto a quale non augurare la sconfitta.
Tutte e due le squadre meritano la vittoria. Ma le nazioni? Per me una nazione corrisponde a una narrativa, una storia condivisa, attraverso la quale esprimiamo la nostra identità comune, indossiamo i confini che la circondano quasi fossero i nostri abiti, e riconosciamo le nostre qualità rispetto a quelle dei popoli vicini.
Se andiamo a vedere che cosa pensano gli inglesi degli italiani, ecco i soliti, stanchi stereotipi. (Un colpo all’italiana), quel film di successo del 1969 — Michael Caine è a capo di una cricca di ladri che sbarcano a Torino, travestiti da tifosi inglesi in trasferta, allo scopo di trafugare un carico di lingotti d’oro sotto il naso del pubblico gesticolante, dei poliziotti imbranati e della mafia, raffinata sì, ma non all’altezza — ha lasciato un segno profondo. Quattro anni dopo, quando gli azzurri si presentarono a Wembley, i nostri quotidiani li sbeffeggiarono chiamandoli «una squadra di camerieri». Fabio Capello segnò all’86’, assicurando la vittoria dell’Italia.
Nel 2006, Gianluca Vialli e Gabriele Marcotti hanno pubblicato un libro eccellente, chiamato anch’esso , nel quale esplorano in che modo le narrative dei due Paesi contribuiscono a determinare le differenze di stile più significative nel calcio giocato. Scrive Vialli: «Il calcio inglese punta all’utopia, mentre il calcio italiano affonda le radici nel realismo… Ai ragazzini inglesi, per tradizione, è stata risparmiata quella lezioncina di vita che puoi arrivare in cima imbrogliando, basta non farsi scoprire. Invece agli italiani viene insegnato che molti arrivano al successo con l’inganno, ed è per questo che devono stare attenti a non farsi ingannare a loro volta».
La cosa mi affascina perché spiega, in parte, la mia reazione iniziale, tipicamente inglese, sempre pronta a condannare la tendenza italiana a saltare la coda. Più avanti, Vialli osserva: «La sportività e il fair play degli inglesi vanno ben oltre lo stereotipo».Ma il fair play inglese rientra anch’esso nei luoghi comuni, e contribuisce sia a plasmare sia a offuscare la mentalità inglese. Proprio per questo gli inglesi non riescono a definire una simulazione il tuffo con cui Raheem Sterling si è brillantemente conquistato quel rigore che ha assicurato la vittoria contro la Danimarca. Allo stesso tempo, i luoghi comuni sull’Italia permettono agli inglesi di sfottere Ciro Immobile per il suo tuffo contro il Belgio, tacciandolo di patetico e imbarazzante. L’azione di Immobile non ha tuttavia influito sull’esito della partita: chi dovrebbe allora sentirsi più imbarazzato?
Il fair play inglese può anche essere un cliché, ma tutti gli stereotipi si basano su un fondamento di verità, benché parziale. Il culto della sportività si sviluppò rapidamente nel 1800 nelle grandi scuole private inglesi (ne so qualcosa per averle frequentate) che curavano l’educazione dei figli dell’aristocrazia per farne abili amministratori, e principali beneficiari, del più grande impero globale che fosse mai esistito fino ad allora. Il Regno Unito, con l’Inghilterra al suo centro, certamente non edificò quell’impero facendo bella mostra di fair play: da Sir Walter Raleigh in poi, siamo stati un popolo di pirati. Il fair play era lo strumento per invogliare i nostri uomini a unire le forze per la causa comune di depredare il mondo, e il mezzo per edulcorarla, elevandola a rango di missione civilizzatrice. Davvero un colpaccio. Molto «furbo».
La partita di stasera si annuncia come uno scontro tra due narrative: una segnata dall’ipocrisia, l’altra dalla sincerità. In Inghilterra abbiamo un premier di cui è ben noto il vezzo, quando era giornalista, di scrivere menzogne e che ha saputo manipolare la verità sulle conseguenze della Brexit per il suo tornaconto politico. E che ora tenta di agganciare il suo vagone politico a quegli stessi calciatori che lo scorso anno prendeva di mira per sottrarsi alle critiche sulla sua catastrofica gestione della pandemia. Pertanto l’osservazione di Vialli — che ai bambini inglesi non viene insegnato a farsi strada con i trucchi — forse non trova più riscontro nella realtà di oggi.
L’idea che la vittoria inglese di stasera possa essere impastata trionfalmente nella narrativa della Brexit mi risulta insopportabile.
Quello che amo di più dell’Italia — oltre a una donna speciale che vive nel vostro Paese — è la sincerità implicita che anima la vostra splendida complessità culturale. E, siccome l’ipocrisia è al polo opposto della sportività, credo di aver risolto il mio dilemma pur sfoggiando, da bravo ipocrita inglese, la mia maglia dell’Inghilterra. FORZA ITALIA!!!