Omicron. Canada e gli altri

Articolo pubblicato dalla rivista specializzata Salute Internazionale. I bollettini giornalieri sono accompagnati dal messaggio che c’e’ chi sta peggio. Ma “noi meglio degli altri” e’ rivolto soprattutto ai vicini Stati Uniti

di Gino Bucchino

I bollettini giornalieri sul Covid-19 sono accompagnati dal messaggio che c’è chi sta peggio.

Ma “noi meglio degli altri” è rivolto soprattutto ai vicini Stati Uniti.

A  volere tirare le somme, adesso che l’ultima variante, speriamo lo sia davvero, comincia a manifestare segni di debolezza possiamo dire che il Canada ha superato meglio di molti altri paesi questa nuova ondata.

Il confronto con gli altri paesi del mondo occidentale è a favore del Canada per molti indicatori.

Dal numero dei decessi per milione di abitanti dall’inizio della pandemia, unico paese, fra i sette presi in esame, al disotto dei mille, alla percentuale di popolazione completamente vaccinata, con il Canada secondo solo alla Spagna.

Unico dato dove il Canada sembra battere la fiacca è la percentuale di popolazione che ha ricevuto la dose booster.

Un piccolo 39% che  risente del ritardo nella somministrazione della dose booster ai giovani della fascia di età 12-17, peraltro non ancora iniziata.

Anche qui i numeri del Covid, nonostante abbiano mostrato momenti di forte crescita verticale, non sembra che abbiamo spaventato più di tanto. Segno di una assuefazione alle brutte notizie, di un ridimensionamento del pericolo di andare a finire in ospedale, ma anche perché, anche qui in Canada, i bollettini giornalieri sono accompagnati dal messaggio che c’è chi sta peggio. 

Come dire insomma che “noi” siamo meglio e stiamo meglio degli altri.

Una ostentazione di orgoglio certamente legittima perché suffragata dai numeri ma anche, e forse soprattutto, perché il “noi meglio degli altri” è rivolto ai vicini Stati Uniti. Un modo legittimo per segnalare e ricordare al mondo intero  che il Canada non è Stati Uniti di America.

Vale la pena ricordare che il Canada è il secondo paese al mondo per estensione territoriale ed è separato dagli Stati Uniti da un confine di terra di ben 8893 chilometri.

Un confine di terra è vero ma che  separa e divide tante e tali differenze che è come se Canada e Stati Uniti fossero separati da un oceano.

Differenze storiche e politiche protette da quel “multiculturalismo” che a buon diritto viene rivendicato come il fiore all’occhiello del Canada e che significa riconoscimento e incoraggiamento al mantenimento delle proprie identità, in un paese dove oltre il 50 percento dei suoi studenti è fluent in un altra linqua diversa dall’inglese, e assoluta uguaglianza nei diritti e, per quanto riguarda la salute, la garanzia di una assistenza sanitaria gratuita e universale. Può essere questa una delle chiavi di lettura delle differenze, a favore del Canada, nella migliore gestione della pandemia. Una differenza enorme: 880 decessi per milione di abitanti del Canada contro i 2651 decessi degli Stati Uniti paese che con la loro assistenza sanitaria for profit esclude totalmente dall’assistenza  della salute un buon 10% dei suoi cittadini, in difficoltà  a coprire i costi dell’assicurazione.

Il Canada ha però anche qualche zona d’ombra, un punto debole importante che ha impedito che il numero dei decessi fosse ancora più basso: un numero troppo basso di posti letto disponibili che ha portato gli ospedali canadesi a riempirsi più velocemente che negli Stati Uniti. 

Altro punto debole del Canada è la grave cronica carenza di personale infermieristico  che pone sulle spalle di coloro che resistono massacranti turni di lavoro. Molti non ce la fanno più e abbandonano l’impiego. “Molte persone moriranno perché siamo pochi”, ha detto in lacrime Birgit Umaigba, un’infermiera di Toronto in una intervista a CBC-News il 6 gennaio di quest’anno.  Carenza di personale denunciata anche negli Stati Uniti, aggravata dal paradosso che è stato proprio il sistema sanitario for profit a determinare la chiusura di alcuni ospedali costretti a dichiarare bancarotta perché la pandemia ha messo in hold quasi tutti gli interventi chirurgici minori

Non tutto bene dunque, nemmeno per il Canada, che nonostante l’esperienza della emergenza Sars del 2002 si è trovato sorpreso e impreparato a fare fronte a questa nuova ondata con risposte denunciate come tardive e non coordinate. A cominciare dal Governo federale che se da una parte sembra riuscire a proteggere bene, economicamente, le famiglie, i singoli lavoratori, le imprese, le compagnie e business non importa quanto piccoli siano (nel suo intervento in televisione del 12 gennaio Trudeau ha confermato il mantenimento in vigore del Canada Emergency Business Account – CEBA), dall’altra perde qualche colpo nel tentativo di  coordinare le misure per contrastare il dilagare dell’epidemia. Mal gestita ad esempio la promessa che tutte le famiglie potessero disporre di un numero sufficiente di testi rapidi. Invece di inviare i kit per posta, li ha affidati alle varie Province che a loro volta li hanno distribuiti nelle scuole e, a macchia di leopardo, ad alcuni centri commerciali  e, come nel caso della Provincia dell’Ontario, ai Liquor Stores (gli unici negozi autorizzati a vendere vino e liquori) con il risultato di lunghissime code a temperature di ben oltre 10 gradi sotto zero.  Code ordinatissime che iniziano alle 6 del mattino ma che regalano spesso la sorpresa di non riuscire ad avere il kit di testi rapidi che vanno velocemente in esaurimento non più tardi di un’ora dopo l’apertura.

Altrettanto mal gestita, anzi quasi fallita, la risposta alla richiesta di attenzione delle numerosissime comunità indigene (i nativi del Canada). Molte comunità First Nation hanno dichiarato lo stato di emergenza a causa del dilagare senza controllo dei numero di nuove infezioni. Come nella riserva Bearskin Lake First Nation nel nord della provincia dell’Ontario, con il 50% di tutta la popolazione già positivo, dove è stato necessario imporre un rigido lockdown. L’allarme di Charles Fox, componente della Bearskin First Nation e ex Gran Chief della Nishnawbe Aski Nation è di quelli che suonano a grave denuncia: “I volontari non ancora positivi vanno di casa in casa per rispondere alla richiesta di aiuto, cibo, acqua, medicine e per aiutare a tagliare la legna da ardere”. Anche l’appello di inizio anno del Primo Ministro Trudeau, a parte la riassicurazione che nessun cittadino sarà dimenticato, ha potuto solo limitarsi ad un mero invito  alle singole province e territori che hanno invece tranquillamente continuato in ordine sparso nelle iniziative di contrasto al Covid-19. Dalla British Columbia che a partire dal 23 dicembre fino a nuovo ordine ha stabilito la chiusura di bar, nightclubs, sale da ballo, palestre e divieto di qualsiasi torneo sportivo, alla Provincia Saskatchewan che mantiene tutto aperto con il solo obbligo di indossare la mascherina e che è anche l’unica provincia a non avere esteso il periodo di vacanze natalizie chiedendo agli studenti di rientrare a scuola in presenza il 4 gennaio. Nel territorio di Nunavut, possono entrare  senza obbligo di quarantena di 14 giorni solo i  viaggiatori che hanno completato il ciclo vaccinale e hanno ricevuto il booster.

Grandi novità  e misure invece molto ristrettive in Quebec. A partire dal 20 Dicembre, chiusura completa di bar, cinema e palestre , con l’obbligo di mostrare prova di essere vaccinati per poter entrare nei Liquor Stores o nei numerosissimi negozi, ormai già più di 200, che vendono recreational marijuna. Le nuove misure  hanno sollevato  forti proteste dei cittadini del Quebec che hanno costretto alle dimissioni il Senior Medical Officer, accusato anche di avere affermato che non era necessario per insegnanti e operatori sanitari indossare le mascherine N95. Ma la notizia che ha fatto il giro del mondo è l’annuncio del Premier François Legault che il Quebec ha allo studio l’imposizione di una “health tax” a coloro che rifiutano la vaccinazione perchè  “il 10 per cento della popolazione non può mettere in pericolo la salute del 90 per cento”, arrecando anche enorme danno economico.

La proposta ha sollevato qualche dubbio di “vulnerabilità costituzionale” ma la maggioranza degli esperti legali è del parere che le Province hanno l’autorità di imporre tassazioni dirette per sostenere il costo di servizi come quello dell’assistenza sanitaria facendo pagare di più chi è direttamente e responsabilmente causa di una spesa maggiore.

Gino Bucchino. Medico, vive e lavora a Toronto (Canada)

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