Canada, ancora isola felice?
Il Canada è un paese ricco e ha fatto molto per aiutare i suoi cittadini ad affrontare le difficoltà economiche provocate dalla pandemia. Non ha saputo però fare altrettanto per proteggere la loro salute.
Saluteinternazionale.it
di Gino Bucchino
La capacità di risposta dei vari Paesi del mondo alla richiesta di attenzione
sanitaria dei propri cittadini è talmente diversa che possiamo dire che non esistono
due nazioni uguali nemmeno tra i Paesi a maggior reddito e che avrebbero la possibilità di
destinare alla spesa sanitaria una maggiore percentuale del loro prodotto interno lordo. La
pandemia causata dal Covid ha sottoposto i sistemi sanitari di tutti i Paesi ad una sorta di
stress test a sorpresa, con risultati poco soddisfacenti per tutti. Anche il Canada, paese
spesso indicato come esempio e punto di riferimento ne è uscito con le ossa rotte,
mettendo a nudo anche insospettate criticità, alcune addirittura pre-era Covid.
Una conferma dunque di un poco rilevante posizionamento già messo in risalto, ma
puntualmente sottaciuto, dal report del marzo 2021 del Commonwealth Fund Surveys
condotto dalla statunitense SSRS (social science research solutions) in collaborazione con
organizzazioni partners in altri dieci nazioni, la OECD (Organisation for Economic Co-
operation and Development) e l’organizzazione mondiale della Sanità (WHO).
Le dieci nazioni, oltre agli Stati Uniti, prese in esame sono Australia, Canada, Francia,
Germania, Norvegia, Nuova Zelanda, Olanda, Regno Unito, Svezia e Svizzera. Focus della
ricerca sono stati gli adulti e adulti-anziani particolarmente sensibili e vulnerabili nei
confronti dell’attenzione sanitaria.
Il Canada si è posizionato al penultimo posto della classifica superando di poco gli Stati Uniti e ben lontani, Canada a Stati Uniti assieme, da tutti gli altri Paesi. È bene sottolineare che la maggioranza dei dati sono stati collezionati nei mesi precedenti la pandemia, o a pandemia appena iniziata.
Osservazione che può a buon diritto portarci ad affermare che la preesistente debolezza o
inadeguatezza del sistema sanitario ha continuato a mostrarsi tale, nei singoli Paesi, anche
nella gestione della pandemia.
Quasi nessun Paese al mondo ha potuto costruire una valida barriera di difesa
contro il virus. Anche Paesi per così dire “modello” come Australia e Nuova Zelanda che in
piena terza ondata registravano un numero bassissimo di casi e con un numero di morti
molto vicino allo zero, stanno adesso imponendo nuovi e rigorosi lockdown. Ma è anche vero
che questi Paesi che assieme a Olanda e Norvegia occupano i primi posti della classifica
dell’indagine, non hanno mai visto i loro medici lanciare accorati appelli, sino alle lacrime,
come è avvenuto in Canada nei non lontani mesi di marzio e aprile 2021, denunciando
l’impossibilità di continuare a fare fronte all’ondata di ricoveri in terapia intensiva. In
Norvegia (tra i Paesi con il più alto numero di medici per abitanti) la Carta dei Diritti dei
Malati sancisce il diritto a ricevere attenzione medica nei limiti di un preciso spazio di
tempo, indicando anche il tempo massimo di attesa che non può essere superato per altri
servizi e trattamenti medici. Non può quindi meravigliare che il Canada si trovi solo un
gradino più in alto degli Stati Uniti (unico paese senza assicurazione medica universale),
con l’attenzione medica, anche specialistica ormai relegata alla sola consulenza telefonica e
a svariate ore di attesa nei pronto-soccorso.
Il Canada è un paese ricco e ha fatto molto, e lo ha fatto bene, per aiutare i suoi
cittadini ad affrontare le difficoltà economiche. Ha davvero mantenuto la sua promessa
che nessuno sarebbe stato abbandonato. Non ha saputo però fare altrettanto per
proteggere la loro salute. L’esperienza della SARS che a inizio pandemia Covid è stata
ricordata, e forse anche un po’ sbandierata, per sottolineare che il Canada era preparato a
far fronte al “nuovo” forse più di qualsiasi altro paese al mondo, è servita a poco. Il “nuovo”
con tutte le sue prevedibili ma non previste problematiche ha spazzato via in pochi mesi
l’eccessiva confidenza della passata esperienza. E dimenticate sono ormai le parole del
Primo Ministro Trudeau “... i canadesi devono capire che è loro dovere ascoltare e seguire
queste direttive, e stare in casa è il modo di servire il paese”, cosi come non vale più
l’impegno dei politici canadesi di guardarsi bene dall’esprimere opinioni divergenti, almeno
in pubblico. Parole e promesse smentite dalle manifestazioni dei no-vax, dalle resistenze
corporative di varie categorie, insegnanti in testa, e soprattutto dalle conseguenze della
mancanza di un tempestivo protocollo federale. I leaders delle dieci Province e dei tre
Territori del Canada hanno cosi rispolverato le loro differenze regionali e guidati
dalle diverse sensibilità politiche hanno già deciso di andare ognuno per la propria
strada. È di questi ultimi giorni, l’intervento decisamente tardivo, del Governo Federale che
ha annunciato il piano di “creare un passaporto vaccinale per i viaggiatori internazionali
entro la fine dell’autunno. Per i canadesi che decidono di viaggiare, il Passaporto Vaccinale
permetterà agli ufficiali di frontiera di verificare se i dati della storia vaccinale rispondono
ai requisiti richiesti”. L’annuncio del Ministro per gli Affari Intergovernativi Dominic
LeBlanc ha soffiato su fuoco del già forte dibattito nelle Province e Territori se e come
introdurre una locale “prova di vaccinazione”. Le risposte e prese di posizione (alcune
avevano preceduto l’annuncio federale) delle Province sono le più disparate e
suscettibili di repentini cambiamenti, qualche volta veri e propri voltafaccia, dettati
dall’andamento delle proiezioni della campagna delle prossime elezioni politiche indette un
po’ a sorpresa dal Premier del Canada Justin Trudeau.
Nella provincia della British Columbia ci sarà l’obbligo, a partire dal prossimo 24
ottobre, di dimostrare, esibendo la “digital vaccine card”, di essere “fullly vaccinated”
per poter avere accesso a ristoranti, eventi sportivi, teatri e matrimoni. Mentre il Governo
dell’Alberta non accetterà e non implementerà passaporti vaccinali, nonostante sia la
provincia col maggior numero di contagiati. Luce verde invece dalla provincia del
Manitoba dove il passaporto vaccinale è già richiesto per i viaggi internazionali e per
accedere al lavoro e eventi vari, all’esatto contrario del Premier Scott Moe della vicina
provincia del Saskatchwan che, nonostante l’accorato appello di Charlie Clark sindaco di
Saskatoon, ha solo solo preso l’impegno di studiare il rilascio di un passaporto vaccinale per
facilitare i viaggi internazionali.
Il Quebec, seconda provincia per estensione e popolazione, ha già bruciato tutte le tappe
con la obbligatorietà, già in atto, di presentare il green-pass (QR Code sul telefonino o
stampato) comprovante l’avvenuta completa vaccinazione per accedere a qualsiasi servizio
non essenziale, come bar, ristoranti, festival e eventi sportivi. Indietro tutta infine del
premier conservatore dell’Ontario Ford che di fronte al crollo della sua popolarità e del suo
partito nelle intenzioni di voto (elezioni provinciali del 2002) ha trasformato il perentorio di
fine luglio “la risposta è no, non lo faremo mai”, nell’obbligo, appena annunciato, del
passaporto vaccinale per i viaggi e per accedere a tutti i “non essential business and
services”. Singolarmente meno “autonomiste” le posizioni dei North-West Territories e di
Nunavut che hanno affermato di essere pronti a implementare qualsiasi decisione del
Governo federale del Canada: “non sta a noi decidere cosa è necessario o accettato”.
E così via per le altre province e territori del Canada, questo immenso paese con sei
ore di fuso orario da costa a costa e 10 milioni di km quadrati, secondo solo come
estensione alla Russia. Un Paese che nonostante le criticità e i ritardi evidenziati dalla
pandemia resta pur sempre un esempio e un invidiato punto di arrivo quanto a capacità di
attenzione ai bisogni dei suoi cittadini. Lo conferma anche l’ottimo risultato finora
raggiunto dalla campagna di vaccinazione, partita forse con po’ di ritardo, ma che
ha gia raggiunto un ottimo 67,08% di popolazione che ricevuto due dosi di vaccino.
Numeri di gran lunga superiori al 52,03% della popolazione degli Stati Uniti e che
pongono una attenta riflessione e un quesito al quale è difficile dare risposta: il Canada ha
già riaperto i suoi confini ai viaggiatori degli Stati Uniti, ma senza reciprocità.
L’amministrazione americana infatti non permette l’ingresso dei cittadini canadesi. Se lo
facessero, dicono loro, dovrebbero consentire anche l’ingresso ai cittadini del Messico.
Gino Bucchino, medico, vive e lavora a Toronto (Canada).