Zamparini e il Palermo, dai fasti alla miseria

Dettagliata e precisa disamina del glorioso club rosanero che fu, che poteva essere e che non e' piu'

Zamparini e Dybala ai tempi d’oro del Palermo

di Salvatore Ferro

(giornalista palermitano del quotidiano on line livesicilia.it)

A Palermo, Zamparini c’è chi non riesce a odiarlo, chi lo ha scaricato entro tempo massimo e ha la coscienza tifosa a posto, chi è sceso dal carro dopo l’ultima passeggiata nell’abisso del fallimento del 2019.

Troppo forte l’ustione, il contrasto con i fasti, i supremi fasti, della storia rosanero.

Questi ultimi esemplari, purtroppo fetta grossa di quel sold out storico dei seggiolini del “Barbera” che accompagnò la campagna abbonamenti del primo anno di A dopo la cavalcata incredibile del 2003/2004, da queste parti vengono tacciati dai gradoni circostanti come faccioli: significa voltagabbana, ingrati, portati al cambio di bandiera a seconda del vento e in attesa proditoria di scegliere il cavallo giusto durante la bonaccia.

In queste ore di vicinanza umana per le sofferenze fisiche dell’ex patron, ricoverato e operato con la massima urgenza, è giusto, ed è tempo, di venir fuori, di provare a dire chi è e chi è stato Zampa.

Io, giornalista obbligato consenziente per mestiere al focus ampio e però nell’“altra” vita tifoso patologico all’ultimo stadio (nel vero senso della parola), Zamparini l’ho mollato definitivamente, e a prescindere dall’abisso che un suo passaggio di consegne avrebbe (come effettivamente accaduto) suscitato, a metà degli anni ‘10.

La fiducia era iniziata  vacillare con la retrocessione del 2013, quando la squadra dei miracoli che aveva prima scosso la A con Toni, Grosso, Corini, Migliaccio, Simplicio, Barzagli, Zaccardo, Mutarelli e compagnia bellissima, e poi lanciato o rilanciato a razzo Balzaretti, Kjaer, Cavani, Dybala, Pastore, Amauri, fino alle magie ineffabili di Fabrizio Miccoli, era diventata anticamera di paccottiglia sudamericana grazie a Pietro Lo Monaco diesse.

Quella società, andando a ramengo fra le annate, ingaggiò fra gli altri Cassani, un imberbe Joao Pedro, un giovanissimo Darmian, e anni dopo, sempre andando random fra gli almanacchi, un altro azzurro, Emerson Palmieri.

Quella società diede a Lippi un bel po’ dei pilastri sui quali fu costruito il trionfo berlinese del 2006: Grosso (che fece il salto all'Inter) Barzagli, Zaccardo, Cassani, oltre a Luca Toni passato alla Fiorentina l’anno prima

Quella società andò a vincere a Londra sul campo del West Ham con una zampata fine dell’Airone Caracciolo nel 2006 in Europa League, regolando gli Hammers di Tevez, Mascherano e della stagionata aquila d’area Teddy Sheringham al “Barbera” per 3-0.

A differenza dai faccioli che misurano i propri odi et amo con la convenienza dei risultati, a chi scrive piace l’onore della maglia, l’impegno, la dedizione, il gioco schietto a far gol senza truffe.

Tutto ciò, udite udite, a prescindere dalla categoria.

Chiamatela come vi pare, anche mentalità ultras in corpo non violento. Io continuerò a chiamarlo amore infantile e (perciò) eterno.

IMPRENDIBILI ISOLE

Lo snodo fondamentale è Venezia. Zamparini, deluso dalla frana burocratica autorizzativa che gli blocca il progetto del nuovo stadio a Tessera, prende armi, bagagli e calciatori e compra nel 2002 il Palermo da Franco Sensi, trapiantando in quella ambiziosa piazza allora di B la barbatella forte di un vigneto solidissimo del quale il Venezia fu spogliato letteralmente, fino a un declino oggi dimenticato dalla garra della squadra di Paolo Zanetti nel massimo campionato.

Maniero, Marasco, Re Artù Di Napoli, Salvatore Masiello, Modesto - dodici in tutto - cui si aggiunsero per scalare il campionato uomini come Tonino Asta e Lamberto Zauli.

C’era un giovanissimo Mario Alberto Santana, l’unico calciatore della storia ad aver segnato con la maglia rosanero in tutte e quattro le categorie, dalla A alla D.

Una corazzata affidata, per lo spazio di un mattino, al visionario Ezio Glerean.

Voleva essere come i Pozzo e intanto bruciava allenatori come zolfanelli, Zamparini, e gli è sempre sfuggito il perché non ci sia mai riuscito.

Proprio lui, friulano sveglio e intraprendente come la famiglia che regge l’Udinese da decenni, che il nuovo stadio lo ha pure fatto e pure bello; che delle plusvalenze, quelle vere, ha fatto patrimonio duraturo, diversamente da Emmezeta; che in Friuli è rimasta senza sporgere il naso, mai e poi mai, fuori dal confine con le Venezie.

Con confessa presunzione - relativa, di quelle che ammettono volentieri la prova contraria - proviamo a spiegare il perché, giusto mentre ricorre l’anniversario (convenzionale e leggendario quanto si vuole) della fondazione di Venezia, 421 d. C.

Lo spiego io, il motivo di cotanta brama per le isole, lagunari o a tre punte nel cuore del Mediterraneo che siano.

In quell’alba fuligginosa di Medio Evo che si tappava le orecchie ai paurosi scricchiolìi dell’Impero di Roma, i Venetici (così si chiamavano allora quei latini doc antenati dei veneziani d’oggi) già abituati a rifugiarsi in Laguna da tre secoli, da quando iniziarono a imperversare i primi Barbari, fecero del rifugio occasionale un vero arcipelago di insediamenti che oggi sono la città paradossale e meravigliosa che è Venezia.

Le invasioni, appunto, di gente del Nord Est europeo che dalle steppe sarmate e dalle foreste tedesche venivano a ballare sui resti di Roma padrona: prima, molto prima, i Sarmati e i Marcomanni, poi gli Alamanni, gli Jutungi, i Vandali, gli Svevi, gli Alani, i Goti di Alarico che saccheggiarono persino la capitale, gli Unni di Attila. Tutta gente che saccheggiava senza fermarsi, insediarsi, fino ai Longobardi e poi i Franchi che invece si fermarono eccome, minacciando sempre i confini della Laguna-Città senza mai poterne avere ragione.

Tutte popolazioni che nel cammino hanno lasciato forte traccia di sangue e di differenza con chi nelle acquitrinose isole adriatiche cercava difesa e identità.

Non era, non è, Paese per terragni conquistatori sulla via del Friuli.

Ecco, il friulano imprenditore che fece soldi insegnando ad allestire capannoni di ipermercati in quattro e quattr’otto, ricorda quelli: il continente di roccia che affonda fra le isole, non riesce a prendersele. E non capisce perché. No pasarán in salsa veneziana, un classico. La Laguna che arretra e poi toglie.

OLIMPO E FALLIMENTO

Anche la Sicilia è un’isola. Zamparini poteva, voleva prendere il Napoli allora alla canna del gas fra debiti e Corbellerie varie. Prese il Palermo, accolto come un messia, considerato estraneo alle logiche che per decenni, nell’intreccio della politica applicata al quotidiano che tanto ha compromesso nello sviluppo economico e civile di molte parti del Sud, avevano pure castrato il calcio, preda di strapagate balene spiaggiate, ex calciatori ancora in campo, intrighi societari eterodiretti, compravendita di partite.

Anche lì, a Palermo, Zamparini sognava stadio e centro sportivo, non volendosene separare neppure dopo il naufragio, riconoscendo che era quello lo snodo fondamentale per il profitto vero, dopo che, nella capitale dell’Isola, aveva ottenuto altri e importanti permessi, a iniziare dalla costruzione di un mega centro commerciale allo Zen. Non se ne è scollato, mai, da quelle carte che sono rimaste morte, che avrebbero dovuto portare alla costruzione di un (già progettato) stadio sulla collinetta dove oggi langue per incuria dell'amministrazione comunale, dopo i fasti del Mondiale di ciclismo del 1994, il Velodromo “Paolo Borsellino”, e di un centro sportivo modello a Carini, sulla stessa erbetta dove noi, ragazzi, andavamo a curiosare quando vi si allenava l’Egitto impegnato nel girone palermitano di Italia ‘90.

L’Isola lo aveva abbracciato, per poi (rieccoci) finire col prendere calci nel sedere nella deriva romanzesca e squallida della fine, fra inchieste, sospetti di scatole cinesi lussemburghesi, provvigioni faraoniche ai procuratori, plusvalenze sulla cessione dei migliori giocatori (in primis Cavani e Dybala) misteriosamente incapaci di risollevare le sorti economiche del club.

Fallimento, con appendice di claudicante ripartenza dalla serie D, oggi C. Per poi assistere alla gogna più becera, quella dei faccioli che danno del facciolo a chi non li fa più godere come pare a loro.

LE BEFFE DEL TEMPO

Altra beffa, altro ricorso: Zamparini ha rifatto capolino - con la solidarietà di tutti - nelle cronache a causa delle sue critiche condizioni di salute, proprio nelle ore in cui al timone della squadra rosanero in crisi di risultati è stato richiamato Silvio Baldini, che lasciò a Guidolin l’onore della promozione del 2004 per l’esonero dovuto a una lite con il presidente.

Sì, Baldini, proprio quello del calcio nel sedere teletrasmesso a Mimmo Di Carlo (altra bandiera rosanero, guarda un po’).

Non tollerava, il toscanaccio mentore di un 4-2-3-1 che per i tempi era primizia, le ingerenze di Zamparini sulla formazione.

Sempre successe, sempre inspiegabili, sempre autolesionistiche, sempre fastidiose e invadenti.

Disse testualmente, Silvio di Maurizio, in conferenza stampa: “Il presidente dice cazzate”. Fuori. Che nel calcio diventa improvvisamente dentro, e non per il vento sul viso dei faccioli. Quello non ha forza, almeno quella che ci vuole per scrivere FORZA PALERMO, sempre.

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